Dal caso Ghira al delitto dell’Olgiata. La ‘prova regina’ è sempre nel dna
Dal caso Ghira al delitto dell’Olgiata. La ‘prova regina’ è sempre nel dna –
Videointervista alla genetista Marina Baldi
ROMA – La chiamano la ‘prova
regina’, perché spesso riesce a sciogliere delitti rimasti irrisolti per anni.
Dal caso Ghira al delitto dell’Olgiata, passando per gli omicidi di Serena
Mollicone e Yara Gambirasio, il test del Dna è diventato negli anni uno
strumento sempre più attendibile, quasi infallibile secondo gli esperti, in
grado di portare alla luce e svelare l’identità degli assassini. Ma davvero la
scienza non può sbagliare? Per saperne di più l’Agenzia Dire ha intervistato
Marina Baldi, biologa e genetista forense, da anni impegnata in ambito legale
per la risoluzione di alcuni tra i più importanti casi italiani di cronaca nera.
Si è riaperto in questi giorni il caso del Circeo e pochi giorni fa è
stata riesumata la presunta salma di Andrea Ghira, l’unico latitante dei tre che
hanno partecipato al massacro. Lei si trovava nel cimitero di Melilla, enclave
spagnola, come consulente della famiglia Lopez: ci può raccontare come è andata?
“È stato un viaggio molto emozionante. La nostra generazione è stata molto
colpita da questo delitto, ed è come un grosso macigno che abbiamo sul cuore. Si
tratta di un caso irrisolto, che in parte ci ha fatto crescere con la
disillusione nei rapporti di affetto tra i ragazzi. Mi colpì molto già allora,
da ragazza, e adesso che me ne sto occupando devo dire che mi fa effetto. Quello
che mi fa piacere, soprattutto, è il poter decidere, insieme ai consulenti del
pubblico ministero, di mettere un punto a questa vicenda: quella salma potrebbe
essere di Andrea Ghira, e allora la questione si chiude qui, oppure si aprirà un
nuovo fronte. Siamo andati a Melilla per riprendere i resti di questa persona,
che era stata già riesumata, per fare gli accertamenti tecnici medico legali. Io
sono consulente della famiglia Lopez e con me c’erano i due consulenti del
pubblico ministero Nicola Maiorano, i professori Giuseppe Novelli e Giovanni
Arcudi dell’Università Tor Vergata di Roma”.
Sono stati prelevati alcuni
campioni, tra cui denti e frammenti di femore, per una nuova analisi del Dna che
stabilirà se si tratta davvero del corpo di Ghira. In cosa consisteranno
esattamente questi accertamenti e fra quanto tempo si potranno avere dei
risultati?
“Gli accertamenti consisteranno nell’estrarre da questi
campioni, che sono stati portati a Roma, molecole di Dna che si trovano
all’interno dell’osso spugnoso. Da tali cellule si riuscirà quindi ad ottenere
un profilo del Dna completo, speriamo, della persona a cui appartiene quella
salma e verrà poi confrontato con il Dna dei familiari di Andrea Ghira. Questo
ci consentirà, con una sorta di test simile ad un accertamento di paternità o di
maternità, di stabilire se i resti appartengono effettivamente a Ghira. I tempi
sono un po’ lunghi, perché l’estrazione di Dna da osso è un’operazione complessa
e abbastanza difficile: credo che riusciremo ad avere un risultato entro uno o
due mesi. Le analisi inizieranno questa settimana e sono in ottime mani, quindi
non ho dubbi sul fatto che si otterrà un risultato dirimente”.
Nel 2005
un primo esame del Dna certificò che quella salma apparteneva a Ghira. Perché
ora sono state richieste nuove analisi?
“Abbiamo richiesto di riaprire
il caso per questa ragione: nel 2005 le tecniche non erano sofisticate come
oggi, per cui si riuscì ad ottenere solo il Dna mitocondriale, che era quello
che si utilizzava quando c’erano i resti ossei. Questo tipo di Dna non consente
però un confronto preciso con la persona, ma solo di stabilire se quelle ossa
sono imparentate per via femminile, in questo caso con la famiglia Angelini
Rota, che è il cognome della mamma di Andrea Ghira. La conclusione che ci fu
quindi nella perizia del 2005, che attribuiva con certezza la salma a Ghira,
formalmente era errata, nel senso che gli esperti avrebbero dovuto sottolineare
il fatto che quel corpo apparteneva a quella famiglia soltanto per via
femminile. È stata dunque questa conclusione non precisa a permetterci di poter
richiedere di nuovo l’apertura della tomba, cosa che la Procura ci ha
consentito, perché in effetti il Dna mitocondriale non aiuta alla precisione”.
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La famiglia
Lopez pensa che quello non sia il corpo di Andrea Ghira: è così?
“Sì, la
famiglia Lopez, così come quella dei Colasanti, è convinta che quello non sia il
corpo di Ghira. Loro, ovviamente, vivono in maniera molto emotiva questa vicenda
e in questi anni hanno studiato accuratamente tutti i dettagli e preso in
considerazione le segnalazioni che gli sono state fatte sugli avvistamenti in
città di questa persona, sui suoi spostamenti e sulle sue telefonate. Ma se
quella sia o non sia la salma di Ghira, lo sapremo fra poco”.
Gli
strumenti a disposizione degli esperti, oggi, sono più avanzati da un punto di
vista tecnologico. Ma cos’è cambiato esattamente, per esempio nell’analisi del
Dna? Si riesce ad arrivare alla verità con maggiore certezza?
“Più che
con maggiore certezza, direi che oggi si arriva alla verità più facilmente.
L’osso, soprattutto quando è molto vecchio, ha difficoltà ad essere trattato in
laboratorio perché è complicato estrarre cellule che contengano Dna nucleare da
una trabecola. Dieci anni fa questo tipo di operazione era ancora più complessa
e infatti, nel caso di Ghira, la persona che se ne occupò (la professoressa
Carla Vecchiotti) non riuscì ad ottenere un Dna nucleare leggibile: era molto
degradato e ridotto in pezzi molto piccoli, cosa che succede quando si tratta di
ossa o salme parecchio deteriorate. Era stato questo, insomma, il limite
oggettivo di quelle analisi. Oggi abbiamo non tanto strumentazioni diverse,
quanto dei kit in grado di amplificare regioni più piccole di campioni,
consentendoci così di ottenere più facilmente un risultato comparabile. Quanto a
Ghira, dunque, siamo molto ottimisti nel fatto di ottenere un risultato”.
Risultati più precisi, quindi, anche in tempi più brevi…
“Sì, certo,
anche in tempi più brevi: si è infatti accelerata, migliorando, anche tutta una
serie di passaggi relativa alla metodica. Sicuramente, oggi, va tutto un po’
meglio”.
La prima cosa che si deve valutare, ovviamente, è lo stato di
conservazione di un corpo. Quando’è, allora, che subentrano le analisi del Dna e
quanti diversi tipi di analisi esistono?
“Lo stato di conservazione di un
corpo o di un reperto è basilare ed è da lì che si deve partire, complice
l’esperienza, per decidere come agire e quali tecniche usare. In ogni caso,
ormai, ci sono processi standardizzati e linee guida internazionali che non
permettono più di tanto di scegliere in che modo procedere. La stessa
interpretazione dei risultati deve essere fatta secondo criteri ben precisi,
accettati dalla comunità scientifica internazionale. Oltre ad essere garantisti,
insomma, bisogna attenersi alle regole e fare analisi che possano essere
ripetute in ogni momento e dare lo stesso risultato”.
a2Parliamo di un
altro delitto, di recente tornato sulle pagine dei giornali: quello di Serena
Mollicone, la 18enne di Arce brutalmente uccisa nel 2001 e ritrovata morta in un
bosco. Il caso non sarà archiviato, come deciso dal gip, e sarà effettuato il
prelievo del Dna sui circa 6mila abitanti del paese in provincia di Frosinone.
Come si procede in questi casi? Che tempi si prevedono secondo lei?
“Intanto voglio dire che sono molto contenta per questa bella vittoria raggiunta
da Guglielmo Mollicone, il papà di Serena, che ho conosciuto poco tempo fa ed è
una persona straordinaria. Quanto alle analisi, in quel delitto sono stati fatti
rilievi che hanno consentito di estrapolare il Dna dallo scotch che aveva
avvolto la salma della ragazza. Questo Dna è stato comparato con le persone
all’epoca coinvolte nel caso, ma non ha dato nessun match. Ora il generale
Garofano, consulente della famiglia Mollicone, ha richiesto e ottenuto che venga
estesa l’analisi del Dna a tutte le persone intorno alla vicenda e addirittura a
tutta la popolazione del posto. Ciò significa che si dovrà fare un grosso
lavoro, un po’ come accaduto per il caso Gambirasio: bisognerà fare un punto di
raccolta e le persone, su base volontaria, si dovranno presentare per sottoporsi
a un tampone salivare. Con un cotton fioc verrà quindi prelevato un campioncino
di saliva, dal quale con facilità verrà estratto il Dna che darà un profilo.
Tali profili verranno inseriti in un database e poi confrontati con il profilo
del Dna che si ha a disposizione, in questo caso con quello ottenuto dallo
scotch che era sul cadavere. Se si sarà fortunati, a quel punto, si riuscirà ad
avere un’informazione”.
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In Italia, attualmente, manca una banca dati del Dna. Sarebbe utile?
“La banca dati, in realtà, sta per partire: qualche anno fa l’Italia (nel
2009, ndr) ha aderito al trattato di Prüm, che ne ordinava l’istituzione nei
paesi europei, ma noi siamo rimasti un po’ il fanalino di coda perché abbiamo
avuto problemi col Garante della privacy. Tali problemi, però, nel corso degli
anni sono stati risolti e oggi la polizia penitenziaria è stata incaricata di
iniziare questo servizio: sono stati fatti concorsi e assunte persone, quindi io
credo che l’apertura della banca dati sia imminente. E questo sarà molto
importante, perché nei Paesi dove esiste i reati si sono risolti per il 300%: la
capacità di delinquere, infatti, viene reiterata nelle persone e in questo modo
è più facile arrivare alla risoluzione di un caso”.
a4Sempre sulla base
di analisi del Dna è stata arrestato Massimo Bossetti, il muratore imputato per
l’omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate di Sopra (Bergamo)
uccisa nel 2010. Quella del Dna, intanto, è chiamata ‘la prova regina’… Ma la
scienza davvero non può sbagliare?
“Questa è una domanda da mille punti…
Se un test è fatto in maniera corretta, difficilmente può sbagliare, molto
difficilmente. E oggi siamo arrivati ad un livello di approfondimento così
accurato che, ripeto, è difficile che si possa fare un errore. Certamente
bisogna seguire quei protocolli di cui parlavo prima e non sempre è così facile,
perché spesso le tracce sono degradate, il Dna è a bassa concentrazione e ci
possono essere contaminazioni e alterazioni del reperto: insomma, ci possono
essere una serie di problematiche a cui si va incontro quotidianamente.
Ricordiamo sempre, però, che il Dna va inserito in un ambito investigativo, così
anche ai miei studenti io dico sempre che non dobbiamo mai considerare un dato
tecnico come fosse il ‘deus ex machina’ della situazione. Esiste
un’investigazione e l’analisi tecnica, che sia il Dna, la balistica o qualsiasi
altra branca della criminalistica, deve convergere ed essere inserita in questo
insieme di informazioni, che devono tutte collimare. Altrimenti, rischiamo di
dare troppa importanza ad un qualcosa che potrebbe non essere l’unica
spiegazione di un evento”.
In futuro questo tipo di esami potranno
migliorare ancora, diventando sempre più attendibili?
“Certamente. Penso
alla ‘Next generation sequencing’, una tecnica di biologia molecolare
recentissima che sta dando risultati meravigliosi in campo medico. Si tratta di
sequenze di singoli nucleotidi, quindi di pezzettini molto più piccoli, e come
in genetica medica ci consentono di avere informazioni migliaia di volte più
approfondite, sicuramente anche in ambito forense l’applicazione avrà una
esplosione. Già adesso alcuni di questi pannelli Ngs ci consentono di stabilire
certe caratteristiche fenotipiche della persona che ha rilasciato la traccia:
colore degli occhi, dei capelli, più o meno l’età e persino l’etnia. Negli anni,
quindi, credo che si che arriverà ad avere una specie di identikit biologico e
sicuramente anche l’identificazione ne guadagnerà. Siamo assistendo ad un
migliorativo della genetica enorme, diciamo quindi che ‘siamo sul pezzo’”.
a3C’è un caso, tra tutti quelli che ha seguito, che l’ha colpita di più?
“Quello che più mi ha colpita a livello personale è stato il caso
dell’Olgiata, perché è stato uno dei primi importanti a cui ho lavorato, ma
soprattutto perché lo avevo seguito anche come persona qualsiasi. Avevo letto i
giornali e visto in tv la storia di questa contessa, che abitava in un
bellissimo comprensorio alla periferia di Roma, mentre tutti c’eravamo sempre
posti il dubbio di chi fosse l’assassino e fatti delle convinzioni. Quando ho
avuto modo di occuparmi di questo caso, allora, e di avere la grande fortuna di
diventare la consulente della famiglia, per me è stata davvero una grande
emozione. La sera in cui mi comunicarono che avevano fatto il match, che il Dna
dell’assassino era stato trovato ed era del domestico filippino, ricordo che
provai una soddisfazione enorme da un punto di vista personale, oltre che grossa
gratitudine per il lavoro svolto dai Ris. Ma non solo: ero felice per la
famiglia della contessa, che era stata veramente massacrata per venti anni”.
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