La scienza che studia il DNA per risolvere i casi più complessi



La scienza che studia il DNA per risolvere i casi più complessi

Nei primi del Novecento il criminologo francese Edmond Locard teorizza un principio destinato a rimanere il caposaldo delle scienze forensi, noto come il principio di interscambio di Locard:
“Quando due oggetti vengono in contatto, tracce di uno sono trasferite all’altro, in entrambe le direzioni. Queste tracce non possono sempre essere determinabili (dipende dalla sensibilità del metodo), ma sono sempre presenti”.
Anche se bisognerà aspettare quasi un secolo prima che la genetica si affermi in campo forense, questo principio è, ancora oggi, quello che meglio ne giustifica il senso.

Il 1953 segna lo spartiacque dopo il quale lo studio della genetica, ossia di quella branca della scienza che studia l’ereditarietà biologica, non sarà più come prima: è in quell’anno, infatti, che i biologi James Watson e Francis Crick, con l’aiuto del chimico Rosalind Franklin, scoprono la struttura a doppia elica dell’acido desossiribonucleico, il DNA, il punto di partenza per capire l’essenza della vita stessa.

Negli anni seguenti lo studio sempre più approfondito di questa doppia elica permetterà di comprendere il funzionamento degli organismi viventi e darà alla genetica un ruolo sempre più da protagonista in campo scientifico.

Tuttavia, come dicevamo, bisognerà attendere ancora del tempo prima che il DNA assuma rilievo in ambito forense. Ciò accade con la scoperta che il DNA è individualizzante, ossia che ogni individuo ha un patrimonio genetico unico e irripetibile.

È il 1983 quando il genetista britannico Alec Jeffreys, studiando dei campioni di muscolo di foca, individua i minisatelliti, ossia delle sequenze non geniche che si ripetono uguali nel DNA dell’animale.

Inizialmente pare che questi minisatelliti permettano di distinguere le diverse specie animali, ma non gli individui all’interno di una stessa specie. Successivi esperimenti su questi minisatelliti, attraverso calamite molecolari ed enzimi di restrizione, consentiranno invece di creare una sorta di codice a barre che, a sorpresa, si rivelerà unico e irripetibile per ogni singolo essere vivente: una vera e propria impronta digitale genetica (DNA fingerprinting).

E allora, se ogni contatto lascia una traccia, e se da una traccia contenente DNA è possibile estrarre un’impronta digitale genetica, ecco che si iniziano a intravedere tutte le potenzialità della genetica anche in ambito forense.

Negli stessi anni in cui Jeffreys scopriva i minisatelliti, il biochimico Kary Mullis metteva a punto la PCR, ossia la reazione a catena della polimerasi, una tecnica che consente l’amplificazione di frammenti di acidi nucleici e che, quindi, consente di effettuare analisi di DNA anche quando il materiale biologico della traccia è scarso. Grazie a questa tecnica, il cui valore in ambito forense verrà riconosciuto a partire dagli anni Novanta, e ai continui perfezionamenti che negli anni ci sono stati (e che continueranno a esserci), l’orizzonte delle possibilità di risolvere casi grazie all’analisi del DNA si è rivelato sempre più vasto.

La genetica forense è dunque quel ramo della genetica che, attraverso lo studio del DNA, permette l’identificazione di soggetti aventi un ruolo rilevante sia in ambito penale che in ambito civile.

Fase di campionamento di tracce biologiche
In ambito penale, oltre all’applicazione più nota, ossia quella ai casi di omicidio, la genetica forense può contribuire a risolvere reati quali, ad esempio, le rapine, la violenza sessuale, il sequestro di persona o i disastri di massa. Emblematico in tal senso il disastro dell’11 settembre: è di pochi mesi fa la notizia del riconoscimento grazie al DNA, a quasi diciott’anni dalla tragedia, dei resti della vittima numero 1.643. E tanto lavoro c’è ancora da fare, dato che al 40% dei resti di quella sciagura non si è ancora riuscito a dare un nome.

Resti umani in attesa di identificazione
Un altro settore molto interessante che recentemente, grazie alle nuove tecniche di polimorfismi da singola base, sta prendendo piede, è quello dell’individuazione dell’etnia, ma anche del colore dei capelli e degli occhi. Questa possibilità si rivela fondamentale quando, ad esempio, la traccia analizzata non può essere immediatamente riconducibile al soggetto a cui appartiene: è possibile ottenere una sorta di “identikit genetico” molto utile per restringere il campo della ricerca e ipotecare il successo di un’indagine che, altrimenti, rischierebbe di trovarsi in un vicolo cieco.

Foto repertazione di un plico sigillato contenente campioni biologici
In ambito civile, invece, sono numerosissimi i casi di accertamento o disconoscimento di paternità che un genetista forense si trova ad affrontare. Ma non di rado il professionista è chiamato anche a dirimere casi di responsabilità professionale, come i casi di sospetta malasanità nelle diagnosi prenatali (amniocentesi o villocentesi) o quando nasce un bambino con delle anomalie la cui causa deve essere accertata.

Il lavoro per il genetista forense è dunque molto e destinato ad aumentare, ma deve andare di pari passo con i continui sacrifici e lo studio. Si tratta, infatti, di una scienza che non dorme mai, in continua e inesauribile evoluzione.

Articolo di Marina Baldi